Opporsi alla morte… e all’oblio

Elie Wiesel, il grande scrittore di origine rumena sopravvissuto ad Auschwitz e Buchenwald, premio Nobel per la pace nel 1986, tra i tanti splendidi libri scritti, fu anche autore di Maestri e leggende del Talmud, un corposo volume in cui narra di alcuni saggi rabbini e del loro rapporto con il Talmud. Credo che nella chiusa del volume ci sia un breve racconto che possa spiegare uno dei motivi per cui è doveroso, anche oggi, nel 2022, fare memoria della Shoah:

Rav Ashì morì a 92 anni. Un mese prima, vide l’Angelo della morte, giunto a strapparlo dal mondo dei viventi.
«Dammi trenta giorni perché possa ripetere quello che ho appreso», gli chiese. Allora, si dice, l’Angelo della morte si allontanò.
Studiare significa opporsi alla morte.
E a ciò che è ben peggiore della morte: l’oblio.

È una delle tante ‘storie-perla’ della tradizione ebraica, che mi è particolarmente cara per quel senso di umana sapienza e passione per lo studio che racchiude, sempre interpellando, implicitamente, il lettore.
Con poche parole, è spiegato il senso del ‘fare memoria’, del leggere, dello studiare, del ricercare: sono azioni che si oppongono alla morte e all’oblio, il quale è una forma ancora più grave di morte, poiché sradica affetti e identità, cancella la vita e la sua eco, che generalmente le sopravvive. Così, in questa ottica, è possibile allora sostare ancora sulla grande tragedia dei campi di sterminio: combattere l’oblio, far sopravvivere l’eco di esistenze strappate e rese cenere. «Studiare significa opporsi alla morte», significa non arrendersi all’Angelo della morte, significa onorare chi è stato annientato dal male senza concedere spazio alla dimenticanza.

Tra le innumerevoli vite falciate, anche quella del padre di Wiesel, come egli racconta nello stesso libro, partendo dalla vicenda di rabbì Shim’on e del figlio El’azar, costretti a stare nascosti per molti anni in una grotta, per non cadere nelle mani dei soldati romani.

Io penso a loro perché penso a mio padre. Mi ricordo di un tempo in cui ero con mio padre, lontano dalla nostra casa. Non eravamo soli eppure lo eravamo.
E perché eravamo soli, più che mai ci avvicinammo l’uno all’altro, più e meglio di un tempo. Prima lo avevo visto raramente. Era troppo occupato in negozio o nel consiglio della comunità; lo vedevo solo durante lo Shabbat. Ora, invece, eravamo sempre insieme. Al lavoro, nella baracca. E finalmente potevamo parlare e parlare.
Lui solo contava per me; e io ero per lui tutto quello che contava. La mia vita dipendeva dalla sua. Io vivevo perché lui non morisse.
Ma, contrariamente a rabbì Shim’on e a suo figlio, io ho lasciato la grotta da solo.

Ricordare che pochi hanno lasciato la grotta dello sterminio: questo è opporsi alla seconda morte delle vittime. Tra di esse, Shlomo Wiesel.

SERGIO DI BENEDETTO