Parole di vita e di speranza per questo tempo di Natale

Nel 1963, Ignazio Silone scriveva: «Non è in nostro potere risolvere l’eccesso di problemi della nostra epoca. Ma è in nostro potere essere sinceri». Credo che queste parole, che mi accompagnano da qualche tempo, siano tanto più vere in questi nostri giorni: c’è un eccesso di problemi nella nostra epoca — guerre, violenze, povertà, solitudini, minacce, paure. E di questi problemi, inutile essere retorici, non è in nostro potere la soluzione. Però, come annotava Silone, almeno «è in nostro potere essere sinceri». E per essere sinceri, dobbiamo guardare a questo Natale senza i filtri dei buoni sentimenti astratti, dei bei discorsi edificanti, delle frasi zuccherose, per cui «Gesù nasce nei nostri cuori» e simili cantilene. Gesù di Nazareth è nato più di due millenni fa e, nonostante questo, la nostra epoca vive un «eccesso di problemi».

Cerchiamo allora di essere sinceri: questo ci rimane. Sarà un altro Natale di guerra, in molte parti del mondo; e le guerre sembrano crescere, non diminuire. La violenza pare avere ormai il dominio di altro che non sia la radice di terribili conflitti. Le disuguaglianze aumentano, l’egoismo individualista non lascia il passo alla solidarietà.
È, il nostro, un mondo di violenza, che serpeggia e si diffonde e si alimenta anche nel quotidiano di persone comuni. L’aggressività e il risentimento sono ormai dominanti nel discorso pubblico, dove non vi è più alcun pudore nell’allestire ogni giorno discorsi di rancore e, quindi, di distruzione. Ma possiamo forse negare che anche il discorso privato sia ormai denso di flutti di tensione, di prepotenza?
Le nostre parole, le parole del nostro tempo, ai vari livelli, sono spesso divenute parole di morte. Eppure, di altre parole avremmo sete, avremmo bisogno, avremmo desiderio: parole di vita. Parole che edificano, che costruiscono, che allacciano e non strappano, che saldano e non fratturano, che siano di consolazione e non di desolazione. Di queste parole il nostro dire — sia pubblico, sia personale, intimo — avrebbe necessità, contro le parole di morte che non sembrano arrestarsi, accompagnando uguali gesti di morte.
Il Cristo Bambino è Parola di vita: una parola di marginalità, di nascondimento.
Anche qui, siamo sinceri: il Natale che il Vangelo racconta è una nascita di rifiuto, di scarto, di povertà, di violenza: un parto in un luogo disagevole, lontano da casa, dopo aver avuto il divieto di accesso a uno spazio di sollievo. Come molti nostri ammalati, abbandonati per giorni nei corridoi dei reparti di pronto soccorso; come molte persone, a partire dai bambini, che da mesi, da anni sono privati della serenità, della scuola, della salute, della famiglia… e anche della vita.

In questi mesi, vedendo mia figlia crescere piano piano, mentre di tutto ha bisogno, più volte mi sono fermato a guardare il suo viso, nel sorriso o nello stupore, pensando che tutti siamo stati bambini vulnerabili, bambini indifesi, bambini capaci di seminare tenerezza e commozione. Tutti lo siamo stati: anche chi poi ha portato morte e violenza, è stato bambino di pochi giorni, di pochi mesi. Anche il malvagio è stato bambino.
Ci sarebbe una comunione del mondo nel contemplare il bambino che ognuno è stato. Anche Dio, ci dice il Natale, è stato bambino; e questa è già, radicale, una Parola di vita: il Verbo, la Parola, si è fatto carne. E ha posto la sua tenda tra noi.
«Il Signore ha consolato il suo popolo», dice Isaia. Ma lo ha consolato con intrecci di nascondimento, con tessiture di povertà: non sono ammessi trionfalismi nel Natale del Vangelo. Ma sono richieste responsabilità: dovremmo domandarci quanto la nostra parola è stata ed è parola di vita, e quanto è stata ed è parola di morte. Si tratta di un bilancio da cui non rifuggire, soprattutto se ci fermiamo di fronte a un bambino, se sentiamo il suo respiro, se vediamo il suo volto. E ricordiamo che così — indifesi, dipendenti, fragili — siamo stati tutti.
Abbiamo fame di parole di vita, che rilancino speranze e siano di consolazione, mentre tutt’intorno sembrano prevalere parole di morte. Abbiamo urgenza di parole vere, che rispondano a vite vissute, autentiche, profonde. E abbiamo urgenza di esperienze di vita profonda, che sappiano concedere significato al nostro quotidiano.

Silone ricorda che da bambino, nella sua contrada abruzzese, la notte di Natale si mettevano provviste sulla tavola e si teneva aperta la porta, perché «in quella notte la Sacra Famiglia era in giro per il mondo, in fuga, ricercata e perseguitata dagli sbirri: bisognava fare in modo che se, per caso, arrivata al nostro vicolo, la Sacra Famiglia avesse avuto bisogno di sostare, potesse entrare in qualsiasi casa e riscaldarsi, rifocillarsi, nascondersi […] Come dimenticare simile esperienze? Esse ci istillavano il rispetto e la solidarietà per i perseguitati». Nella narrazione del Natale che oggi prevale, quale spazio c’è per una parola di verità simile, edificatrice di umanità?
È Natale ogni volta che ci raggiungono parole di vita, eco di quella Parola incarnata che ha avuto una mangiatoia come culla.
Sempre Silone, a distanza di molti anni, ricordava una notte in treno con don Orione: discorsi alti, discorsi liberi di un uomo autentico a un adolescente ribelle. Quelle ore notturne, per le parole di don Orione, saranno indimenticabile per Silone:

«Era un po’ come la notte di Natale: impossibile dormire. Accanto a molte debolezze, paure, viltà, che erano e sono la materia grezza dei miei rimorsi, portavo in me una dimensione, scavata nel più profondo di me stesso, scavata quasi a mia insaputa, nei primi anni di vita, in cui ogni parola del genere di quelle che don Orione diceva, aveva una risonanza vivissima. Di lì quella nostalgia della Parola, nella sua purezza e audacia originale».

È Natale ogni volta che sentiamo quella nostalgia di Parola «nella sua purezza e audacia originale».
È Natale ogni volta che non ci arrendiamo alle parole di morte.
Il Natale che ci introduce alla speranza della misericordia, in questo anno di giubileo, ci aiuti a trovare e custodire parole di vita.
Il Natale, scelta di Dio di farsi viaggiatore nella carne, divenendo così «l’apparire inatteso / della relazione» (Angelo Casati). Della relazione con un Dio bambino.
Che sia un Natale di parole di vita e di relazione, caro lettore, cara lettrice.

Sergio Di Benedetto