Pastori, Magi e vecchi: tre strade per trovare il bambino

Il percorso spirituale del nostro presepe

            In uno dei suoi bellissimi sermoni, quello per il Natale del 1618, il vescovo Lancelot Andrewes (1555-1626) costruisce il discorso a partire da questa osservazione: “Nel messaggio dell’angelo ci sono due parti: 1. la nascita, 2. il ritrovamento. Perché questa è una festa doppia: non solo la festa della sua nascita, ma anche la festa del suo ritrovamento. Per questo l’angelo non conclude l’annuncio con è nato per voi, ma dice altro: lo troverete. Non basta dire Cristo è nato, ma, per ricavare un vantaggio da questa nascita, noi dobbiamo trovarlo. È nato è la parte che fa lui: lo troverete è la nostra. Se non lo troviamo è come se non fosse nato. Per noi, per tutti. Nasce per noi quando noi lo si conosce”.

            E per il vero, i racconti evangelici dell’infanzia sono più preoccupati di farci sapere non come e dove Gesù è nato, ma come e da chi viene “trovato”. E questo spiega ancora una volta perché i vangeli non sono soltanto “storia”, ma anche una testimonianza di fede, o se vogliamo, sono “la storia di chicome, e perché ha creduto” che nel bambino di Betlemme, così come nel condannato morto in croce, risplendeva la gloria di Dio.

Tra le figure che popolano il Natale ne emergono tre che rappresentano diverse situazioni e diversi modi di rispondere alla “notizia”: sono i pastori di Betlemme, i Magi venuti dall’oriente, e i vecchi Simeone e Anna. Sono, se si vuole, tre figure di poveri: i pastori per statuto sociale, i Magi per la loro non appartenenza al popolo di Israele, i vecchi per ragione anagrafica come persone che non hanno più niente da dire né da dare. Letti in sequenza mostrano tre atteggiamenti che sono alla base di ogni cammino di fede: lo stupore/sconcerto di fronte all’imprevedibile, la fatica della ricerca, la pazienza dell’attesa.

            1. L’incanto dei pastori. Il racconto di Luca li presenta come persone che “vegliano nella notte”. Su di loro scende “la gloria del Signore” che “li avvolge di luce”. Naturale che siano presi da “grande timore”. Ricevono l’annuncio che sappiamo, e che è sconvolgente per due aspetti: l’enormità della notizia che annuncia “un salvatore per tutto il popolo, oggi!”, e la miseria del segno che prova la verità dell’annuncio: “un bambino in una stalla”. E però, a pensarci bene, per dei pastori ambedue le cose non possono che accendere lo stupore, l’incanto, la felicità folle di avere un Dio calato nelle proprie misure. Incanto che però non è automatico, e che deve passare per lo sconcerto. Scrive ancora Andrewes: “Normalmente ci dovrebbe essere una proporzione tra il segno è la cosa indicata dal segno… Il segno offerto era così improbabile che nessun uomo poteva indicarlo, solo un angelo. I pastori erano certo grati per la sua nascita, ma non per il segno. Che ci fosse un segno, bene, ma non ‘quel’ segno! Se Egli non avesse dato alcun segno, questo li avrebbe turbati. Ora, il segno che viene dato loro è ancora peggio, li turba ancora di più”. Perché?

            Ritroviamo qui un problema sempre aperto: come poter pensare che Dio si nasconda nella fragilità, incontri il rifiuto, venga addirittura messo a morte? Eppure questo è e rimane il cuore della rivelazione cristiana. Ed è ancora Andrewes a osservare: “Considerate la natura di un segno. Se Cristo fosse venuto in gloria questo non sarebbe stato un segno, non più di quanto lo sia il sole che splende nel firmamento in tutta la sua forza. Il sole eclissato, questo è un vero segno. E questo è il segno qui: il sole di giustizia che entra nella sua eclisse, incomincia a essere oscurato, nel suo punto di partenza, quello della sua nascita”. E questo è solo l’inizio. Perché questo non è solo un segno, è, dice, “un segno per voi”. Consideriamo attentamente. “Se fosse nato in una condizione gloriosa, non si sarebbe permesso a gente come i pastori di avvicinarsi a lui. Ma questo è un segno, dice, per voi. Voi che custodite le pecore, e tutta la gente povera come voi. Anche voi avete un Salvatore. Non è solo il Salvatore della gente importante, ma anche dei poveri pastori. I più poveri della terra possono trovare rifugio in lui, non essendoci altro rifugio che il suo”. E la conclusione, per quanto sorprendente, è solo logica: “C’è – si chiede Andrewes – una proporzione tra il segno e la cosa segnata? C’è. La proporzione si trova in quello che segue, nella sua vita e nella sua morte. E, tutto considerato, si tratta di un segno adeguato. Possiamo pure cominciare con Cristo nella mangiatoia; dobbiamo concludere con Cristo sulla croce. La mangiatoia è il segno che indirizza alla croce. Lo scandalo della mangiatoia è una buona premessa allo scandalo della croce”.

            Tutto è paradossale in questa storia. Pastori “avvolti” dalle tenebre della notte si trovano all’improvviso “avvolti” dalla gloria del Signore. E però sono invitati a cercare e trovare il Salvatore in un segno di miseria, quasi che la notte tornasse. Non è strano: i mistici parlavano, non a caso, di Dio come “oscurità abbagliante”. Forse è bene ricordare che lo “stupore” di cui si nutre la fede non è solo quello di una bellezza che ci si rovescia gratuitamente addosso, ma anche quello che nasce nel constatare che in questa modo di agire di Dio perfino la morte contiene una speranza di salvezza. Sarà questo il “vangelo” che i pastori hanno raccontato poi a tutti, lodando Dio per la meraviglia che avevano visto (Lc 2,20)?

            2. La fatica dei Magi. I pastori si mettono in viaggio per andare poco distante a Betlemme. I Magi vengono da molto più lontano. Ed è ancora Andrewes a descrivere così il loro cammino: “È stato duro venire, faceva freddo, / proprio il tempo peggiore dell’anno / per un viaggio, per un viaggio così lungo, / le strade fangose e il clima rigido, / nel cuore stesso dell’inverno”. T. S. Eliot ne ha fatto l’incipit del suo Viaggio dei Magi, tutto orchestrato non solo sulla fatica del viaggio, ma anche su un arrivo che sembra non essere esattamente il premio atteso dopo tanta pena: “arrivammo a sera, non un minuto prima / trovammo il posto: potevamo essere soddisfatti, in fondo”. Nella loro storia non c’è un fulgore luminoso che quasi li acceca, ma solo una “stella”, non granché. Per avere informazioni vanno nel posto sbagliato, e quelli che gliele danno non sembrano crederci neanche loro. Non incoraggiante. Forse la cosa che colpisce di più in questa storia è l’ostinazione dei Magi nel proseguire la loro ricerca. E quando arrivano è come se scomparissero: il centro del quadro rimane il bambino, loro si prostrano, adorano, offrono doni. E ripartono. A differenza dei pastori, il loro atteggiamento sembra meno “missionario”: non proclamano, non annunciano. Tornano a casa.

Ma non è cambiato niente? Tutt’altro. Eliot ci dice che i Magi si rendono conto di un ribaltamento inaspettato: “questa Nascita / è stata dura e amara agonia per noi, come una morte, la nostra morte”. E aggiungono: “Siamo tornati ai nostri luoghi, nei nostri regni, / ma non siamo più a nostro agio qui, nell’antica legge / in mezzo a un popolo straniero incollato ai suoi dei”.

È la condizione del cristiano che ha avuto la rivelazione del Dio nella mangiatoia, del Dio crocifisso, del Dio che si fa “trovare” nei margini, dove ha scelto di abitare. È quell’aspetto della fede per cui il credente si ritrova a vivere la fatica di un naturale “disagio” per rimanere fedele a una “logica” che è diversa da quella in cui si trova immerso: mentre Erode vuole eliminare chi ne minaccia il potere, mentre i capi e gli scribi “citano” le Scritture senza trarne alcuna conseguenza, i Magi hanno capito che la legge della vita, proclamata e mostrata da questo nuovo messia, è la logica del dono. Questo è il loro messaggio, il loro “vangelo”.

3. La pazienza dei vecchi. Le figure di Simeone e Anna non trovano posto nel presepio. Eppure la loro presenza è importante. Nell’ottica di Luca sono figure di speranza: li presenta come due anziani che aspettano “la consolazione di Israele” (Simeone), “la redenzione di Gerusalemme” (Anna). Gesù esaudisce la loro attesa, tanto più significativa in quanto estesa su un lungo periodo.

La lettura allegorica che i medievali amavano ha visto in questi due “vecchi” la somma dei secoli che hanno preceduto l’incarnazione. Non è che con la nascita di Gesù il problema si sia chiuso. Tutt’altro. Noi continuiamo ad attendere la piena realizzazione del regno di Dio, il “giorno” in cui tutti i “nemici” saranno sconfitti, e per ultima la morte. Ora è il “tempo della pazienza”, quella di Dio e la nostra. L’esempio dei due vecchi del tempio è incoraggiante, e ci ripete che la nostra attesa non andrà delusa. Ma, come ogni attesa, sarà un misto di speranza e di sofferenza. Non a caso Simeone parla di “spada che trafigge”, e di Gesù come “segno di contraddizione” che chiede di prendere posizione, perché lui “svela i segreti dei cuori”. E la pazienza si esercita appunto nel non lasciarsi sommergere dalle difficoltà, anzi dal farne uno strumento per crescere nella costanza.

            Tre figure, tre atteggiamenti per indicare il percorso di chi non si accontenta di sapere che Gesù è nato, ma, sorretto dallo stupore, cammina nella fatica e nella pazienza, per “trovarlo”.