La decisione del ministro della Pubblica Istruzione, Patrizio Bianchi, di venire incontro, parzialmente, alle richieste degli studenti e di cambiare il sistema di punteggio degli esami di maturità, giunge dopo un confronto con i rappresentanti delle associazioni studentesche, che ormai da diversi giorni protestano contro il ritorno delle prove scritte – in particolare della seconda, di indirizzo – e chiedono il mantenimento della formula degli ultimi due anni (solo un orale, con discussione di una tesina).
Maturità
In contemporanea, era in ballo un ribaltamento del sistema di valutazione, che fino ad ora ha previsto l’attribuzione di 40 punti su 100 in base ai risultati degli anni scolastici precedenti e di 60 in base a quelli degli esami. Nel colloquio col ministro, i rappresentanti degli studenti hanno chiesto che quest’anno i 60 punti fossero dati per il profitto nel corso degli studi e 40 per i risultati dell’esame. La decisione di Bianchi di attribuire 50 punti su 100 al curriculum e 50 alla prova di esame è un evidente compromesso che non cambia, però, i termini del conflitto di fondo, incentrato sul mantenimento o l’abolizione della seconda prova scritta.
Per la verità anche su questa un cambiamento c’era stato, commissionandone la formulazione alle singole commissioni di esame, formate dagli stessi docenti dei ragazzi, invece che al Ministero, come in passato. Un atto di realismo, che mira a rassicurare i candidati sulla corrispondenza della prova al programma effettivamente svolto, tenendo conto delle difficili condizioni in cui si è svolto ultimamente il lavoro scolastico e consentendo l’aderenza dell’esame alle reali possibilità degli studenti.
Peraltro, forse non è superfluo ricordare che già prima del Covid l’esame di maturità era stato notevolmente facilitato per la decisione del ministro Valeria Fedeli di abolire, a partire dall’anno scolastico 2018/2019, la terza prova scritta, la più temuta dai ragazzi, perché multidisciplinare. Ma i rappresentanti delle associazioni degli studenti si sono detti insoddisfatti della risposta del ministro. Da qui le massicce proteste di venerdì scorso, in diverse città d’Italia, con occupazioni di istituti e cortei.
Le proteste degli studenti
In realtà, le notizie riguardanti manifestazioni studentesche e occupazioni di istituti scolastici, in diverse città italiane, si susseguono ormai da diverse settimane. Si è cominciato a metà dicembre con un’ondata di proteste il cui bersaglio era la politica economica del governo, poco attenta, a detta delle associazioni studentesche, ai problemi dell’edilizia scolastica e della didattica.
Nella sola Roma, in quei giorni più di quaranta istituti superiori occupati e cortei. Come se non si fosse rimasti già fin troppo tempo fuori dalle aule… Poi è venuta in primo piano la questione dei prossimi esami di Stato, che, unita alla questione dell’alternanza scuola-lavoro, dopo la tragica morte di uno studente, ha scatenato un’ondata di proteste, culminate, in decine di città, con le manifestazioni del 4 febbraio scorso, a cui, a detta degli organizzatori, avrebbero partecipato centomila studenti (molti di meno, a dire il vero, secondo la polizia).
Con le stesse motivazioni, ma forse con un crescente prevalere di quella relativa agli esami, le manifestazioni di venerdì 11 febbraio.
Motivazioni discutibili
Qualcuno si rallegrerà di questo risveglio del movimento studentesco, dopo il forzato silenzio di due anni di pandemia. Ed effettivamente, se si tiene conto che, secondo recenti statistiche, un adolescente su 4 oggi accusa sintomi clinici di depressione, non si può non salutare con piacere la volontà dei giovani di far sentire la loro voce.
Meno entusiasmanti sono le motivazioni. Il punto di vista degli studenti, nella loro protesta, sembra essere fortemente legato a un’ottica autoreferenziale. Soprattutto appare fortemente limitata la loro ottica quando affrontano il problema degli esami di Stato. È noto che il ministro Bianchi era abbastanza incline a valorizzare la formula degli ultimi due anni, che prevedeva solo una prova orale incentrata su una tesina. Si era perfino spinto fino a avanzare l’ipotesi che questa potesse essere anche per il futuro la modalità ordinaria di svolgimento degli esami di maturità.
A dissuaderlo da questa linea hanno contribuito probabilmente i reiterati appelli che si sono susseguiti in questo ultimo scorcio di tempo da parte di rappresentanti della cultura delle più diverse matrici ideologiche, convergenti nel chiedere il ripristino degli scritti. Intellettuali come Gustavo Zagrebelsky, Roberta De Monticelli, Carlo Cottarelli, Adriano Prosperi, Anna Oliverio Ferraris hanno sottolineato il ruolo essenziale della scrittura in una formazione intellettuale degna di questo nome, sottolineando che la sua eliminazione in un esame conclusivo ne avrebbe svalutato il ruolo lungo tutto il corso di studi precedente.
Aggravando un ritardo, nella capacità di scrivere correttamente, che è sotto gli occhi di tutti. Per non dire che, nelle università straniere, il ricorso a «papers» e altre prove scritte è di gran lunga prevalente rispetto agli esami orali e che, in un tempo in cui molti giovani devono cercar spazio andando a studiare fuori del nostro Paese, la preparazione alla scrittura dovrebbe essere potenziata, piuttosto che ridimensionata. Alla luce di queste considerazioni, la protesta in corso non può non apparire autolesionista.
Rileggiamo la petizione di studenti, su Change.org, in cui si chiedeva il mantenimento della formula di esami degli ultimi due anni: «Noi studenti maturandi chiediamo l’eliminazione delle prove scritte all’esame di maturità 2022, poiché troviamo ingiusto e infruttuoso andare a sostenere un esame scritto in quanto pleonastico, i professori curricolari nei cinque anni trascorsi hanno avuto modo di toccare con mano e saggiare le nostre capacità. L’ulteriore stress di un esame scritto remerebbe contro un fruttuoso orale indispensabile come primo passo verso l’età adulta». Non credo sia necessario un commento.
Le responsabilità degli adulti
Resta da chiedersi, però, se la responsabilità di questa mancanza di spessore sia dei ragazzi o non, piuttosto, degli adulti. Da troppo tempo assistiamo al fallimento di un’educazione adeguata delle nuove generazioni. È accaduto così che un protagonismo giovanile che poteva essere molto significativo, e di cui il Sessantotto aveva costituto una prova generale, poi abortita nel cosiddetto «riflusso», non abbia prodotto i frutti che sarebbe stato lecito aspettarsi, innanzi tutto a livello politico.
Sta di fatto che i decenni seguiti alla rivolta sessantottesca, e caratterizzati da periodiche ondate di occupazioni di scuole, di autogestioni, di infiammati cortei, non hanno segnato affatto – in Italia sicuramente, ma non solo qui – un potenziamento né qualitativo né quantitativo della partecipazione pubblica dei giovani che sono usciti dalle nostre scuole. La classe politica cresciuta nell’era della contestazione è stata quella della Seconda Repubblica, nata dall’indignazione per i limiti della Prima, ma che in realtà l’ha fatta rimpiangere.
Le recenti vicende dell’elezione del capo dello Stato sono state solo l’ultimo atto di questa triste storia. E a esprimere questi personaggi sono stati degli elettori anch’essi allevati nel clima di una facile protesta giovanile, che però spesso non aveva lo spessore ideologico e culturale per andare oltre il velleitarismo di occupazioni improvvisate e di «scioperi» funzionali alla vacanza. Ma responsabili di questa scuola non sono stati e non sono i ragazzi, bensì gli adulti.
Sono stati loro a creare la contrapposizione tra una «ordinaria amministrazione», fatta di uno studio scolastico poco dialogico e problematico, spesso sganciato dalla vita reale e dai problemi del momento, e le periodiche parentesi «assembleari» e «rivoluzionarie», incapaci, proprio perché prive di un’adeguata preparazione, di costituire qualcosa di più che delle parentesi, spesso più ludiche che veramente politiche.
La dimensione etica e politica della scuola
Per superare questo modo di intendere e di vivere la «contestazione», presidi e insegnanti (con l’aiuto dei genitori) avrebbero dovuto valorizzare la dimensione etica e politica (le due cose, con buona pace di Machiavelli, vanno insieme) della scuola non in momenti eccezionali, ma nel suo svolgimento ordinario. E non a scapito di un serio studio disciplinare, ma proprio attraverso di esso.
Di tutto questo tuttora si continua a non parlare. Perciò anche il ritorno agli scritti nell’esame di maturità, per quanto indispensabile, non è sufficiente. Qui è necessario un ripensamento complessivo del rapporto tra scuola e società, e non in base a criteri angustamente utilitaristici – della serie «a cosa mi serve per fare soldi quello che studio» –, ma nella prospettiva di un ritorno alla logica educativa (che non è necessariamente paternalista!), aperta ai problemi della vita personale e comunitaria.
In questa logica, ben vengano le proteste degli studenti. La loro voce può suonare come uno stimolo vivificante, in uno scenario politico deprimente, com’è quello attuale. Purché non si limiti a chiedere che gli esami di Stato siano più facili. La vera contestazione, oggi, dovrebbe piuttosto esigere che esprimano una scuola diversa.
Giuseppe Savagnone