Mentre la pandemia va esaurendosi, riprende la vita ordinaria, anche in ambito ecclesiale. Così ripartono le molteplici iniziative che costellano il calendario delle comunità, spesso procedendo con inerzia dal passato, non raramente con l’aggiunta di altre attività, quasi avessimo già accantonato i propositi, le intuizioni, le promesse, i ripensamenti che nel tempo della sospensione causata dal virus avevamo elaborato. Perché indubbiamente i due anni passati ci avevano lasciato in dono, oltre a tante fatiche, anche la consapevolezza che non poco di quello che impegnava i cristiani non era più essenziale alla vita e all’annuncio del Vangelo. Ma di quello cosa rimane?
In particolare, del momento di ‘pausa forzata’ cosa è rimasto riguardo alla vita sacerdotale e alle sue numerose incombenze? Perché l’impressione è che la macchina ecclesiale sia ripartita come prima, o perfino più appesantita di prima, soprattutto gravando i preti. Lo aveva già messo in luce Assunta Steccanella, sottolineando come la diminuzione di sacerdoti generi un moltiplicarsi di mansioni su quelli ancora attivi nel ministero, spesso, va da sé, nell’impossibilità di superare nella concretezza e non solo a parole un ‘modello pretocentrico’ che fa ruotare ancora troppo del quotidiano ecclesiale attorno a un clero sempre più numericamente ristretto, sempre più anziano e sempre più umanamente affaticato. Anche quando, e capita, si cerca di superare lo schema clericale, alla fine è la struttura stessa della vita comunitaria a impedire, in fondo, quella divisione dei compiti e quella necessaria e costruttiva collaborazione tra sacerdoti e laici che non solo è auspicabile, perché frutto di nuove letture ecclesiali, ma anche perché non è più umanamente sostenibile accumulare sulle spalle dei sacerdoti pesi e pesi, attività e attività, responsabilità e responsabilità.
Lo aveva messo in luce un’indagine del 2020 dello psichiatra Raffaele Iavazzo; lo aveva esplicitato uno studio della Conferenza Episcopale Francese dello stesso anno ( i risultati sono diffusi in rete): i preti sono a rischio esaurimento, con aumento di casi di depressione, di alcolismo, di comportamenti sessuali disordinati. Ma al di là dei fenomeni più gravi, la domanda che ci dovremmo porre tutti è: chi davvero si prende a cuore l’umanità del sacerdote? Ovviamente la risposta più corretta dovrebbe essere: tutta la comunità, la quale dovrebbe custodire il sacerdote non in quanto tale, ma in quanto fratello di fede, riservandogli quell’attenzione che ogni cristiano dovrebbe avere nei confronti di tutti. Ma un approccio clericale che si fatica a superare impedisce quelle relazioni paritarie che sono le uniche umanamente arricchenti e libere, abbassando le aspettative verso sacerdoti che sono uomini, non caricandoli di auree sacre (e differenze ontologiche prive di alcun senso), lasciando spazi di confronto e critica, di condivisone vera, di superamenti di maschere e ruoli. Il che dovrebbe poi accompagnarsi a un corrispondente ‘abbassamento’ del sacerdote stesso, rendendosi disponibile a una interpretazione meno clericale del proprio ruolo.
Se però, come appare evidente, tale schema clericale ancora perdura, allora spetterà ai vescovi oggi aver cura dei sacerdoti: il che vuol dire, in sostanza, non sovraccaricarli di compiti; non renderli responsabili di numerose parrocchie, sempre più grandi; non allargare a dismisura, oltre l’equilibrio e il buon senso, i confini del loro ministero; esortandoli a cercare vere collaborazioni con i laici; riservando a loro quell’accompagnamento spirituale e quell’azione sacramentale che sono proprio del prete; non ignorando i talenti, i desideri e le predisposizioni di ognuno e non dimenticando il loro lato di umanità, integralmente: anima, corpo, mente.
Il rischio burn out è, oggi, di ogni professione che sia esposta alle relazioni con gli altri: accade agli insegnanti, ai medici, agli operatori sanitari, a chiunque deve per lavoro avere a che fare con un’umanità sempre più aggressiva, emotiva, pretenziosa. Lo stesso accade per i preti. Ma quanti di loro, verrebbe da dire, hanno un tempo sereno per la preghiera, lo studio, l’incontro con l’altro, la formazione integrale, l’accompagnamento, il riposo, il tempo libero, le amicizie? La dimensione quotidiana del sacerdozio, la sua sostenibilità umana, il suo equilibrio dovrebbero essere una preoccupazione viva dei vescovi. È così? O forse vige ancora una ‘dimensione eroica’ del prete che nega il suo imprescindibile risvolto umano, sovrapponendo anima e psiche, mescolando ambiti, caricando i preti come muli da soma, perché “Dio lo vuole” e perché “al vescovo si obbedisce”?
In coda nasce, tra la righe, un’altra domanda: forse che il calo delle vocazioni sacerdotali, oltre a tutti i motivi noti, ha anche nell’esaurimento psicologico e fisico dell’uomo-prete una causa?
Ogni dimensione autenticamente umana è anche autenticamente evangelica: forse dovremmo ricordarci che ‘spolpare’ i preti non è solo disumano, ma è lontano pure da un vissuto realmente evangelico.
Sergio Di Benedetto