La ripresa della routine quotidiana, all’inizio di un nuovo pezzo di strada è spesso accompagnata dalla tristezza, come se si passasse dalla vita vera, quella libera della pausa estiva, a una vita prigioniera, fatta della ripetizione di gesti, orari e impegni prescritti.
In questa ripetizione manca la gioia, che sembra dipendere solo dallo straordinario, come mostra la nostra iper-comunicazione social estiva. A corto di gioia quotidiana, viviamo l’ordinario per fuggirne.
Come si fa invece a trovare lo straordinario nell’ordinario, la gioia nel quotidiano? In un bel film del 2016 di Jim Jarmusch, intitolato Paterson, nome sia della cittadina del New Jersey in cui si svolge la storia sia del protagonista (interpretato da Adam Driver), un autista ripete la sua routine quotidiana, come accade con le fermate del suo autobus. Eppure Paterson trova gioia proprio in quella ripetizione, non in quanto ripetizione, ma in quanto ripresa, termine con il quale il filosofo danese Kierkegaard intitolò un saggio attorno al desiderare l’istante, permettendogli così di offrirci i suoi tesori. Insomma le cose sono generose con noi non se le «aumentiamo» o manipoliamo, ma solo se trovano le nostre mani aperte. La nostra mancanza di gioia in fondo è sordità alla realtà: assurdo viene da «sordo», e la vita diventa assurda nella misura in cui noi siamo sordi ai suoi spunti. Ciò vale in qualsiasi ambito: lavoro, amore, luoghi… diventano noiosi e vuoti nella misura in cui li ri-petiamo e non li ri-prendiamo. Come fare?
Se siamo aperti, liberi, in ascolto, quel lavoro, quell’amore, quel luogo… saranno occasione di «ri-presa», cioè qualcosa che è sì come prima ma sempre con qualcosa di nuovo da darci, come quando riprendiamo (non nel senso di farne un video ma di tornare a guardarli senza stancarci) i tramonti, i volti, i libri… riprendere è trovare il nuovo nello stesso (ri-genera), invece ripetere è trovare lo stesso nello stesso (ri-produce). Nel riprendere c’è gioia, nel ripetere no.
L’ossessione di «riprendere» con i telefoni è ricerca di questa novità, ma di fatto riproduciamo (le cose accadono dentro i cellulari più che dentro di noi) lo straordinario, come se non ci fosse spazio di risonanza per gli spunti dell’ordinario. Paterson, anche se «ripete» orari e percorsi, in realtà li «riprende»: trova bellezza nelle conversazioni che sente in autobus, nell’incontro con una bambina alla fermata, nelle stravaganze della moglie… E ci riesce semplicemente perché è aperto, sa ascoltare il mondo, anche quando modula un lamento: Paterson è uomo dell’istante, trova la gioia nel dettaglio, anche in una scatola di fiammiferi blu e in una pausa pranzo su una vecchia panchina. Così tutto diventa «evento», cosa che lo porta a scrivere poesie su questi istanti eterni.
In una di queste scrive che da bambini ci insegnano che la realtà ha tre dimensioni, come una scatola di scarpe, ma poi bisogna scoprire la quarta: il tempo. Da questa dimensione dipende la contentezza che lui prova anche solo bevendo una birra al bar: contento vuol dire «contenuto», la contentezza è l’esperienza dell’essere abbracciati dall’istante, da un tempo pieno di senso.
Viviamo spesso fuori-tempo, senza ritmo e fuori dal presente: ci deprimiamo rimpiangendo il passato, precipitiamo nell’ansia proiettandoci nel futuro, e così ci scappa il presente, unico tempo capace di offrire spunti di gioia solo se noi gli siamo presenti, cioè aperti, in ascolto. Tutto ciò non riguarda anime delicate e fuori dalla realtà, ma accade anche in condizioni estreme, come testimonia lo psichiatra Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di concentramento, nel suo bel libro Uno psicologo nei lager, quando racconta di una giovane nel campo: «La storia sembrerà inventata tanto appare poetica. Questa giovane donna sapeva che sarebbe morta nei giorni successivi. Quando le parlai, era serena, nonostante tutto. “Sono grata al mio destino, per avermi colpita così duramente – mi disse – perché nella mia vita di prima ero troppo viziata e non avevo nessuna vera ambizione spirituale”. Nei suoi ultimi giorni era come trasfigurata. “Quest’albero è il solo amico nei miei momenti di solitudine”, disse, accennando attraverso la finestra della baracca. Fuori c’era un castagno, tutto in fiore, e chinandomi sul tavolaccio della malata potevo scorgere un ramoscello con due grappoli di fiori, guardando dalla finestrella dalla baracca-infermeria. “Con quest’albero parlo spesso”, disse poi. Ne fui meravigliato e non sapevo come interpretare le sue parole. Sta forse delirando, ha delle allucinazioni? Le chiesi dunque, curioso, se l’albero può risponderle – Sì! – e che cosa le dice. Mi rispose: Mi ha detto: Io sono qui, io sono qui, io sono la vita, la vita eterna».
La vita eterna non è quella dopo la morte, ma quella traboccante di senso che si apre nel quotidiano, il tempo della durata nel tempo degli orologi. Frankl capì che rimaniamo liberi se prendiamo sul serio il presente: «La svalorizzazione del presente, della realtà che circonda l’internato tende a far trascurare i possibili spunti per dare una forma alla realtà, spunti in qualche modo presenti anche nella vita del lager. La totale svalorizzazione della realtà induce a lasciarsi andare, poiché comunque tutto è inutile».
La nostra mancanza di gioia dipende spesso da questa «svalorizzazione» del presente, a cui diventiamo sordi anche per la continua proiezione nel mondo immaginario della comunicazione e della pubblicità. Vorrei allora «ri-prendere» la rubrica dopo la pausa estiva e farne, ogni «maledetto» lunedì, un allenamento per provare a rimanere aperti, in ascolto della realtà, così da ricevere gli spunti che, anche in condizioni avverse, la vita offre sempre, fosse anche solo in un albero, in uno sconosciuto o nel volto di uno studente. Per gioire bisogna saper «rischiare» l’istante, ascoltarlo, persino amarlo… Solo così ogni lunedì sarà una ripresa: saremo noi a riprenderci dalla tristezza e a riprenderci la libertà.
Nella quotidiana ripetizione Paterson ritaglia sempre del tempo per questo allenamento a rimanere aperto (leggendo, osservando, scrivendo), e così coglie le infinite possibilità che, come le parole celate in una pagina bianca, la realtà offre. Preferiresti forse essere un pesce? Si chiede a un certo punto. Senza nulla togliere ai pesci, l’autista-poeta sa che la condizione umana può essere una gioia se la si prende e ri-prende per il verso giusto.
Solo chi ha orecchie e occhi aperti s’innamora dell’istante e trasforma la vita quotidiana in vita eterna.
Ma quanto coraggio e quanto silenzio richiede tutto questo?
Forse solo qualche minuto, ogni giorno, a partire da oggi.
Alessandro D’Avenia