Si può discutere sul significato dei dati emersi dalla recente ricerca Censis “Italiani, fede e Chiesa”.
Si tratta di percentuali variamente interpretabili e, comunque, di numeri il cui valore assoluto, in una logica di fede, non è lo stesso che potrebbero avere in un altro contesto. Ad ogni modo sono utili provocazioni a pensare, soprattutto alla vigilia di una tappa importante del Sinodo della Chiesa italiana. Non mi soffermo sul divario tra un 71,1 % che si dice “cattolico” e un 15,3 % che si dichiara praticante. Il dato, invece, dal quale parte la mia riflessione è quello relativo alla vita spirituale e alla preghiera. Risulta interessante notare che il 66 % degli italiani dichiara di “pregare”, poiché si “rivolge a Dio o a un ente superiore”. Una pratica in cui si investe anche il 65,6 % dei cattolici non praticanti (cioè che non frequentano luoghi di culto) e addirittura l’11,5 % dei non credenti (sic!).
Altro dato interessante è che la prima ragione per cui si avverte il bisogno di “pregare” è il fatto di “vivere un’emozione particolare” (39,4 %) e al secondo posto, a breve distanza, viene “la paura e la richiesta di aiuto”, con un 33,5 %. Infine, per la maggior parte (52,7 %) la pratica di una qualche spiritualità è un’esperienza individuale e dal 54,4 % essa è vissuta come un’occasione in cui riflettere su se stessi e conoscersi meglio.
Cercando di far dialogare questi dati, mi sembra di cogliere da una parte uno spiccato bisogno di accedere ad una dimensione che possiamo variamente definire come “spirituale”, tenuto conto dell’ambivalenza di questo termine, e dall’altra un’esplorazione di tale dimensione che risulta solitaria, emozionale e ripiegata su se stessi. L’esigenza è dunque evidente, benché espressa in modo disarticolato. Ma di questo non c’è da stupirsi. Già l’apostolo Paolo, in uno dei suoi discorsi più audaci, all’areopago di Atene, parla di una ricerca “a tentoni” (At 17,27). Si tratta della ricerca di chi avverte un bisogno da cui parte l’esplorazione di possibili risposte. Sarebbe invece preoccupante se a questo dato la comunità credente reagisse con disprezzo e superficialità o non ne tenesse conto, e il cammino sinodale in atto ha qui una grande responsabilità. La domanda è quasi sempre informe. Grave è se lo fosse anche la risposta!
Dinanzi a questo bisogno la Chiesa è interpellata a una seria riflessione sul tema dell’iniziazione cristiana (degli adulti più che degli adolescenti), che passa per una valutazione del già fatto (che in parte si riflette nei numeri su riportati) e per decisioni coraggiose che progettano il futuro. Ed è interpellata sul modo in cui vive la liturgia e sull’intelligibilità dei suoi linguaggi. Due temi non di poco conto, ma essenziali perché costituiscono il fondamento. Per questo la Chiesa ha bisogno di rimettere al centro la sua vocazione a consentire l’incontro dell’essere umano e il suo anelito profondo con il Dio di Gesù Cristo. Ha bisogno di ridiventare luogo in cui innanzitutto s’impara a vivere con Gesù Cristo, nello spazio della comunione con fratelli e sorelle. Le indicazioni del primo sommario degli Atti restano per questo valide più che mai: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2,42). Sono gli strumenti che possono rendere la comunità cristiana sempre più se stessa e dunque capace di cogliere e di rispondere al desiderio disarticolato, ma sincero, di chi cerca a tentoni.
E forse, oggi più che mai, c’è bisogno che la comunità credente ridiventi un luogo in cui s’insegna a pregare, piuttosto che un luogo in cui si parla di Dio o si dettano comportamenti. Luogo in cui s’impara quella difficile arte per la quale anche i discepoli – unico caso! – chiesero a Gesù che facesse loro da maestro: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (Lc 11,1).
Sabino Chialà, priore di Bose