Qualche giorno fa ho letto un post di padre Tonino Melis, nostro condiocesano, missionario saveriano in Cameroun: «Tanti amici chiedono come va qui: come sempre, si muore di malaria, di colera, di diarrea, di bronchite, di tifo… ma questo non fa rumore, qui siamo abituati e soprattutto i morti sono neri».
Esagerato? Lugubre? Cinico? A voi giudicare.
Io l’ho trovato semplicemente vero.
Oggi comprendiamo come mai forse era accaduto alla maggioranza di noi italiani, europei, occidentali, la precarietà della vita, dei sacrifici fatti, delle nostre acquisizioni, delle nostre abitudini, lo comprendiamo sulla nostra pelle, e non solo per sentito dire. Lo comprendiamo in modo tragico e inaspettato, tanto da provocare lo choc in molti di noi.
Comprendiamo per esempio cosa significa fuggire dalla propria patria per cercare salvezza (come hanno fatto moltissime persone che possiedono una seconda casa in Sardegna o nel Sud Italia). Comprendiamo cosa significa improvvisamente guardare in cagnesco i nostri colleghi o il passante sconosciuto che ogni giorno incrociamo sul marciapiede, come se fossero membri di un esercito nemico.
Comprendiamo cosa significa cercare di accaparrarsi quanti più generi alimentari possibile per paura che chiudano i negozi (che poi non chiudono, ma il panico ormai era partito) o non poter vedere per un tempo imprecisato i membri della nostra famiglia.
Cosa significa in misura esponenziale perdere la sicurezza del lavoro, i sacrifici di una vita, la propria impresa chiusa e a rischio fallimento.
Siamo diventati persone che cercano di sopravvivere, perché abbiamo improvvisamente realizzato in tutta la crudezza di un decreto legge, che vivere è altro. Vivere è toccarsi, baciarsi, uscire di casa, andare a lavorare, a scuola, a divertirsi, andare al cinema, a Messa, in spiaggia, al bar. Vedere gli amici e trascorrere del tempo in biblioteca, fermarsi alla macchinetta del caffè a chiacchierare col collega di lavoro.
Vita è più che sopravvivenza, e questo, soprattutto nella nostra società occidentale, noi l’avevamo dimenticato, dopo la catastrofe bellica di metà secolo scorso e il successivo periodo di ripresa.
E ora che l’obiettivo principale è sopravvivere, e che perseguiamo tale obiettivo interrompendo tutte quelle normalissime pratiche che ci facevano sembrare (ed essere) vivi, ci ritroviamo sepolti dentro casa, in un irreale coprifuoco che non sappiamo quanto durerà.
Preferiamo sopravvivere e ci diciamo che andrà tutto bene, immaginando e sperando che in futuro potremo riprendere le nostre normali attività e consuetudini.
La paura (reale) di ammalarci e di morire ci ha fatto passare da persone che vivono a persone che sopravvivono.
Come tutti anche io cerco un senso a tutto questo, e in questo momento mi sembra di poter dire così: dobbiamo vivere questo tempo di sopravvivenza alimentando affetti veri, anche se vivibili senza un contatto fisico, ma almeno telefonico. Manteniamo l’umanità.
Dobbiamo vivere questo tempo facendo sì fiducia nel futuro, ma anche non sprecando i giorni.
La tentazione infatti è quella di abbandonarci al fatalismo e di trascurare noi stessi.
Invece dobbiamo stare in equilibrio tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa alle cose che non possiamo cambiare, per citare Bonhoeffer.
E quindi suggerisco di staccare la televisione e il cellulare per qualche mezz’ora al giorno, fare un po’ di esercizio fisico, riappropriarci della nostra interiorità, del silenzio e della solitudine, dell’intimità di noi stessi che spesso viviamo troppo in superficie. Prendere in mano un libro o un salmo o una poesia, pregare (non troppo a lungo, ma magari a intervalli regolari durante la giornata), studiare, approfondire una passione, se è possibile farlo senza uscire di casa. E poi vestirci, lavarci, cucinare, coltivare un fiore, chiamare un figlio, un fratello, un genitore, un amico, un vicino. Continuare ad interessarci di noi stessi e degli altri. Solo così la sopravvivenza imposta potrà essere fruttuosa e potrà diventare vita, vita nuova e sicuramente trasformata.
Ma questa trasformazione per ora non sono in grado di descriverla.
In alto i cuori!
Marco Statzu