V domenica di Pasqua; commento al Vangelo.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (…)».

 Gesù ci comunica Dio attraverso lo specchio delle creature più semplici: Cristo vite, io tralcio, io e lui la stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. E poi la meravigliosa metafora del Dio contadino, un vignaiolo profumato di sole e di terra, che si prende cura di me e adopera tutta la sua intelligenza perché io porti molto frutto; che non impugna lo scettro dall’alto del trono ma la vanga e guarda il mondo piegato su di me, ad altezza di gemma, di tralcio, di grappolo, con occhi belli di speranza. Fra tutti i campi, la vigna era il campo preferito di mio padre, quello in cui investiva più tempo e passione, perfino poesia. E credo sia così per tutti i contadini. Narrare di vigne è allora svelare un amore di preferenza da parte del nostro Dio contadino. Tu, io, noi siamo il campo preferito di Dio. La metafora della vite cresce verso un vertice già anticipato nelle parole: io sono la vite, voi i tralci (v.5). Siamo davanti ad una affermazione inedita, mai udita prima nelle Scritture: le creature (i tralci) sono parte del Creatore (la vite). Cosa è venuto a portare Gesù nel mondo? Forse una morale più nobile oppure il perdono dei peccati? Troppo poco; è venuto a portare molto di più, a portare se stesso, la sua vita in noi, il cromosoma divino dentro il nostro DNA. Il grande vasaio che plasmava Adamo con la polvere del suolo si è fatto argilla di questo suolo, linfa di questo grappolo. E se il tralcio per vivere deve rimanere innestato alla vite, succede che anche la vite vive dei propri tralci, senza di essi non c’è frutto, né scopo, né storia. Senza i suoi figli, Dio sarebbe padre di nessuno. La metafora del lavoro attorno alla vite ha il suo senso ultimo nel “portare frutto”. Il filo d’oro che attraversa e cuce insieme tutto il brano, la parola ripetuta sei volte e che illumina tutte le altre parole di Gesù è “frutto”: in questo è glorificato il Padre mio che portiate molto frutto. Il peso dell’immagine contadina del Vangelo approda alle mani colme della vendemmia, molto più che non alle mani pulite, magari, ma vuote, di chi non si è voluto sporcare con la materia incandescente e macchiante della vita. La morale evangelica consiste nella fecondità e non nell’osservanza di norme, porta con sé liete canzoni di vendemmia. Al tramonto della vita terrena, la domanda ultima, a dire la verità ultima dell’esistenza, non riguarderà comandamenti o divieti, sacrifici e rinunce, ma punterà tutta la sua luce dolcissima sul frutto: dopo che tu sei passato nel mondo, nella famiglia, nel lavoro, nella chiesa, dalla tua vite sono maturati grappoli di bontà o una vendemmia di lacrime? Dietro di te è rimasta più vita o meno vita? Letture: Atti 9,26-31; Salmo 21; 1 Giovanni 3, 18-24; Giovanni 15, 1-8

Ermes Ronchi

Gli evangeli presentano Gesù come appartenente alla categoria lavorativa degli artigiani; professione: falegname. Eppure, se non altro per la quantità di immagini agricole che ricorrono nella sua predicazione, viene da pensare che il figlio del carpentiere avesse una predilezione per l’attività dei campi. Anche lui una vocazione ‘costretta’ per ragioni familiari? Quale che sia la verità storica, il brano evangelico odierno ci presenta una formidabile similitudine agricola–esistenziale, che riesce a comunicarci moltissimo dell’esperienza spirituale di Gesù: la vite. Nel Primo Testamento l’immagine, associata a quella della vigna, ricorre frequentemente per descrivere il rapporto esistente tra Dio e il suo popolo (cfr. Os 10,1; Sal 79; Is 5,1-5; Ger 2,21; Ez 19,10-14…), sia nella bellezza di un’armonia e di una cura premurosa che nell’ingratitudine dei vignaioli verso il padrone e nella bassa qualità dei frutti. Il testo di Giovanni focalizza l’attenzione su di un’unica pianta, quella vite che Gesù sceglie come icona per se stesso. Malgrado ciò, il ‘mancato contadino’ di Nazareth, non attira l’attenzione su di sé ed evidenzia invece il legame con il Padre e i discepoli, indicati rispettivamente come il vignaiolo e i tralci (vv. 1.5). E il primo aspetto che si coglie ed emerge con prepotenza dal testo è proprio che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre: la sua è un’esistenza in comunione. Il primo pensiero va, con riconoscenza, a chi lo ha inviato, da cui si sente amato, nutrito e custodito profondamente! Ma senza soluzione di continuità, Gesù parla immediatamente anche dei discepoli. Se è stretto il rapporto tra vite e vignaiolo, come si potrebbe definire quello tra vite e tralci? Dove inizia uno e dove finiscono gli altri? Sono inscindibili, è impossibile stabilire un confine netto e preciso. Se è pertanto vero che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre, è ancor più vero per quel che riguarda il rapporto con i discepoli! La vite è pianta estremamente rigogliosa, con una forza vitale esuberante: si potrebbe dire che non può contenere l’energia di cui è portatrice! Non porta frutto immediatamente, a volte chiede anni di attesa perché possa ‘figliare’ grappoli di qualità. Nello scorrere del tempo ciò che rischia di degenerarsi, di scadere è proprio la circolazione della linfa – fuor di metafora, la parola di Gesù (cfr. v. 3) – verso le parti più periferiche della pianta. Non che la vite non ne produca più; no: la Parola mantiene la sua forza inalterata nel succedersi delle stagioni. Può invece avvenire che i tralci, i discepoli, desiderino splendere di luce propria, distanziarsi dalla fonte originaria, ricercare altre fonti di nutrimento. I risultati sono immediati: mancanza dei frutti, dei rigogliosi acini e tristissima morte… «Chi non rimane in me viene gettato via, si secca: lo raccolgono, lo gettano nel fuoco, lo bruciano» (v. 6). Tutta la parte centrale del nostro brano è quindi un’accorata supplica affinché non venga interrotto il vincolo nutritivo, essenziale proprio come il cibo, tra vite e tralci, tra Gesù e discepoli. “Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me» (v. 4). A una prima impressione, queste parole di Gesù potrebbero apparire una umiliante forma di autoritarismo, addirittura di schiavismo: «Senza di me non potete far nulla» (v. 5). In fondo, un modo per mantenere le persone in uno stato di dipendenza e infantilismo deprimente. Invece è sorprendente l’umiltà di questa vite: riceve la vita dal Padre, non la trattiene – questo è l’amore puro: ricevere senza nulla incamerare! – e comunica questa stessa vita ai tralci, che hanno la possibilità e la gioia di vedere fiorire la propria esistenza e, ancor più, di nutrire, di dare la vita a loro volta! Il ‘merito’ viene lasciato tutto ai tralci! Accade quel che spesso succede nelle squadre di calcio: se la squadra vince, sono bravi i giocatori, se la squadra perde, la colpa è dell’allenatore… Questo è lo stile di Gesù, che rifugge da ogni ‘glorificazione’ ma non può esimersi dall’attestare il proprio ruolo discreto eppur fondamentale: ne va della vita dei suoi discepoli! Tutt’al più la gloria può essere imputata al vignaiolo, al Padre… (cfr. v. 8). Ma lui è nella gioia quando i suoi figli «rimangono e portano frutto» (v. 5).Chi rimane, chi non rompe il legame, chi continua ad ascoltare la Parola di vita entrerà in un rapporto così profondo con il Padre da riuscire a penetrare nel mistero della sua volontà e in essa trovare gioia. Effettivamente, quando si conosce il desiderio dell’amato, lo si riempie di gioia domandandogli di poter collaborare alla realizzazione dei suoi stessi desideri: come potrebbe costui rifiutarsi, negare aiuto? «Chiedete quel che volete e vi sarà dato» (v. 7). Il desiderio del discepolo coincide con quello del Padre. Ma per arrivare a tal punto bisogna entrare anche nel mistero della potatura dei tralci, dal momento che per potersi rinnovare viene chiesto di recidere quanto si distanzia dal piano di Dio. Il nostro brano, allora, se è un’esortazione alla fedeltà e alla sapienza, se aiuta a visualizzare simbolicamente il compimento felice dell’esistenza dei discepoli, ricorda come la vita passa attraverso la potatura della Pasqua, sulla scia del cammino di Gesù, per dare «più frutto» (v. 2).

Monastero di Dumenza