La Natività è, per san Francesco d’Assisi, la «Festa delle feste, il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato a un seno umano» (Tommaso da Celano). Così Francesco, volendo figurare il Dio che si fa carne non può evitare di mettere a fuoco la figura della madre, il suo corpo di donna. In primo piano giungono dagli occhi di Francesco, come nel canto di una grande poeta del nostro tempo, «i suoi seni acerbi, le sue braccia bianchissime, le sue mani che culleranno il Dio vero, i suoi fianchi di giada, i suoi occhi che paiono stelle, la sua pelle che è bianca come il respiro» (Alda Merini).
Stupendo il fatto che, nel presepe di Greccio, non ci fossero i personaggi protagonisti ma solo il bue e l’asinello. Perché Gesù sarebbe nato nel corpo dei cristiani che ivi si recavano. A qualcuno sembrò di vederlo nelle braccia dello stesso san Francesco! Natale è una striscia di stelle che va a germogliare in una striscia di terra, fiore di pace che avviene in tutte le donne e gli uomini che «Egli ama» (Lc 2,14). La statuina di Maria non può esserci nel presepe perché Lei è moto di vita che «geme e soffre nelle doglie del parto» (Rm 8,22). Lei può soltanto accadere in un corpo vivo. Poiché nulla è mai inerte nel corpo della donna, pasta di sangue e di carne, di aromi e d’aliti, dinamismo d’acqua e di spirito. Ella segna il farsi del tempo e delle stagioni, nel suo ciclo mensile sono iscritti i mesi.
Maria vuol dire “acqua amara” cioè acqua uterina, asprigna, primo nutriente e completo, gratuito cibo per le sue creature. È la Maria del presepe, la donna che diventa madre andando a compiere il suo destino più forte, che la fa sconfinare dal suo limes, dal suo stesso corpo e transitare fisicamente in un altro. Dal sé all’altro da sé; dal sé al sé come un altro, per accostarvi una categoria filosofica (cf. Paul Ricoeur). L’esperienza del figlio che segna a fuoco la vita di una donna facendo di Maria «femmina un giorno e poi madre per sempre, nella stagione che stagioni non sente» (Fabrizio De Andrè).
Nella pietà popolare Maria viene adorata specialmente come l’Addolorata; la Mater dolorosa vestita di nero, ferita da spade che si moltiplicano proprio sul suo seno anche a memoria della parola che su di lei pronunciò il vecchio Simeone il giorno in cui la incontrò nel Tempio dove s’era recata per purificare il suo corpo di puerpera. «Anche a te una spada trafiggerà l’anima», le aveva detto riferendosi certo al giorno in cui – tra le più infelici delle madri – avrebbe visto morire il figlio in Croce (Lc 2,35). Ma il dolore di Maria è anzitutto retaggio di tutte le figlie di Eva, di tutte le donne che lo sperimentano proprio nel partorire: «Con dolore partorirai figli» aveva, infatti, detto il Creatore (cf. Gen 3,16).
Sono le doglie del parto a descrivere il dolore che appartiene soltanto alla donna. Non voluto da Dio ma come una realtà che ella va a conoscerere proprio quando esperisce la sua immensa grandezza diventando culla di un’altra vita. In Maria il dolore di Eva si trasforma in Magnificat: la maternità è frutto non di condanna né fonte di morte ma radice di vita e porta d’amore e libertà. In Maria quella vita femminile che era condizionata al dolore si trasforma in un volo di gioia; il grido che veniva dal pianto si trasforma in quello di un canto: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore…d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente» (Lc 1,46-49).
«Nato da donna», dice Paolo a proposito di Gesù (Gal 4,4). Nato da una donna che muta il destino di tutte le donne promuovendone una massima dignità, divinamente espressa dal Sommo Poeta: «Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ Colei che l’umana natura nobilitasti sì che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura» (Par XXXIII,1-6).
Rosanna Virgili