Vita di parrocchia: ci si sceglie o ci si accoglie?

In parrocchia, ogni domenica mattina – mentre i bambini sono al catechismo della prima comunione – un gruppo di volontari offre la colazione a chi staziona nel cortile o comunque passa di lì. Così, fra un caffè e un cornetto, si chiacchiera, si fanno girare informazioni sulle prossime iniziative, si conosce gente… L’obiettivo è lanciare un messaggio: la parrocchia non è un supermercato di servizi (mi serve che mio figlio faccia sport, lo iscrivo all’oratorio; desidero che faccia la comunione, lo iscrivo a catechismo; mio nonno si sente solo, lo porto qui sulla panchina… per il resto, mi faccio i fatti miei e non disturbatemi), ma un posto dove si vivono relazioni, si elaborano idee… insomma, un tentativo di comunità.

Domenica scorsa si avvicina, tra gli altri, un signore mai visto prima. Alto, elegante, ha voglia di chiacchierare. È pure simpatico, fin che si parla del più e meno. Purtroppo, ad un certo punto si lancia in alte disquisizioni sul fatto che gli appartamenti, ormai, non sono più case, nel senso che non sono più riferimenti per la famiglia. E perché? Perché le donne ci stanno il meno possibile, con la scusa del lavoro stanno sempre fuori, e i figli sono affidati ad altri. Ci si vede – e neanche questo è scontato – la sera quando si è stanchi, si guarda la TV e si va a nanna… Ad ogni parola sento lo stomaco che si restringe, mentre affannosamente io – che ho avuto tre figli e ho sempre lavorato a tempo pieno – mi chiedo: gli rispondo o non gli rispondo…? Se gli rispondo litigo, lo so. Se non gli rispondo, finisce ogni tentativo di entrare in relazione. Altro che caffè della domenica! Per fortuna, mentre ancora sto sfogliando la margherita – rispondo, non rispondo, rispondo, non rispondo – qualcuno mi chiama e io mi volto. Lui posa il bicchierino del caffè, ringrazia tutti e se ne va.

Ok, l’ho scampata. Allora entro in una delle stanze della parrocchia, a contemplare i cartelli appesi al muro. Qualcuno, stanco del disordine, ha attaccato, proprio sotto il crocifisso, un foglio con scritta una frase terrificante: «Gesù ti guarda, non mettere in disordine». Terrificante in senso stretto (vuole mettere paura) e in senso lato: possibile che ci siano credenti che ancora oggi hanno questo tipo di immagine di Dio? Anzi di Gesù. Quando ero piccola, ci dicevano: “attento, Dio ti vede”, il che ci permetteva di salvare un’immagine buona almeno di Gesù.

Per fortuna, qualcuno ha visto il foglio e, accanto, ne ha attacco un altro con scritto: «Ma si arrabbia con chi mette questi cartelli e non con chi mette in disordine!”. Proprio così, con un bel punto esclamativo. Amo chi ha scritto il secondo foglio, anche se non so chi è. E preferisco non sapere chi ha scritto il primo.

Resta però una domanda: come possiamo essere comunità con persone che la pensano così diversamente da noi, sia sul piano, diciamo così, sociale che su quello religioso? Eppure, il senso e la forza della parrocchia è proprio questa: essere non una comunità elettiva, ma una comunità di tutti quelli che abitano lo stesso territorio, indipendentemente da età, genere e, alla fin fine anche idee. Lo ricordava anche Giuliano Zanchi alle giornate “A tavola con Vinonuovo”, che si sono svolte a Milano il 5 e il 6 ottobre. Associazioni, movimenti, ordini religiosi e quant’altro sono importantissimi, ma sono spazi all’interno dei quali ci si sceglie: mi piace quello stile, condivido quel modo di pensare, uso lo stesso linguaggio… allora decido di condividere quella esperienza. Gli altri ne troveranno un’altra, più adatta a loro. La parrocchia no, non procede per affinità elettive, non seleziona. O non dovrebbe farlo.

Ma intanto io continuo a fogliare la mia margherita – avrei dovuto rispondere a quel tizio o avrei fatto meglio a stare zitta? – e a chiedermi come si può essere comunità con persone che vedono le cose in maniera così radicalmente diversa.

Nel suo articolo “Domande per ristrutturare una parrocchia” William Dalé ricorda come già nelle primissime comunità cristiane sorsero conflitti e discussioni, ai quali si dovettero trovare soluzioni. Soluzioni che aiutarono la Chiesa a crescere e progredire, anche come comunità. E le soluzioni si cercarono insieme. Per continuare su quella strada bisogna riunire la comunità, dialogare con schiettezza, vivere la corresponsabilità. Il problema è che, prima di tutto questo, ci deve essere un terreno comune su cui il dialogo si radica. E il terreno sta – notoriamente – in basso: non è fatto di riflessioni teologiche, di disquisizioni filosofiche, di ragionamenti alti, ma di incontri tra persone. E come posso “incontrare” persone che con un paio di frasi buttano nell’immondizia la fatica che ho fatto per anni per tenere insieme tutto: lavoro, famiglia e pure la parrocchia e l’Azione Cattolica? O che ricorrono ancora (ancora!) all’immagine di un Dio punitivo, per ottenere quello che dovrebbe nascere dall’educazione al bene comune (questa stanza non è solo tua…)?

Eppure, questa è la sfida delle parrocchie, e di quel grande valore che è la territorialità: trovare il modo di dialogare, senza necessariamente andare d’accordo. Perciò continueremo ad offrire il caffè della domenica. E perciò non voglio sapere chi ha scritto i due fogli appesi nella sala, per non creare fazioni. Ma quando ho bisogno di consolarmi vado a leggere il secondo.

Paola Springhetti