Letture:
Siracide 35,15b-17.20-22a; Salmo 33;
Seconda lettera a Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14
«Due uomini salirono al tempio a pregare […]. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano […]”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”». Il fariseo inizia bene la sua preghiera: “O Dio, ti ringrazio”, sono le parole giuste. Ma poi sbaglia tutto quando ne spiega la ragione: perché non sono come gli altri… tutti imbroglioni, ladri, falsi, disonesti. “Io sono molto meglio degli altri”. Non si può lodare Dio e disprezzare i suoi figli. Ed ecco la preghiera da sbagliata diventa insensata: tutto prende a ruotare attorno a due lettere magiche, anzi stregate: io, io, io: “io sono, io digiuno, io pago”. Il fariseo adora il proprio io, non riesce a pronunciare la parola più importante del cosmo è: “Tu”. Pregare è dare del tu a Dio. Ringraziando perché il centro della fede non è mai ciò che io faccio o non faccio per Dio, ma ciò che Lui fa per me.
A ben guardare, quello che il fariseo adora non sono altro le norme della legge. Il dio a cui presta il suo culto è la regola. In realtà, i precetti della legge, dicono i rabbini, sono come la siepe che costeggia la strada, servono per non sbagliare strada, per non perdere la direzione, ma Dio non è la siepe: Lui è in fondo alla strada come un mondo che si apre, un abbraccio caldo, un oceano creativo, onda di luce e di pace. Gioia di vivere, terra e cieli nuovi. Il fariseo ha le parole e l’atteggiamento, di un uomo che non si aspetta più nulla dal domani, senza più desideri. Ha tutto, è sazio, appagato, fermo. Una stupidità che blocca il pensiero, chiude il cuore, distrugge la fonte interiore del desiderio. La sua è diventata la vera vita atea. Infatti: Dio è il totalmente Altro, che entra nella storia perché la storia diventi totalmente altra da quello che è (K. Barth). Dio è diversità che viene, perché la vita sia trasformata e fiorisca.
Ma il fariseo non ha nulla che attenda di fiorire, non vuole un Dio altro da sé, lo vuole identico a sé. In realtà si rivolge alla caricatura di Dio, alla sua maschera deforme. Invece il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. E mette in campo corpo, cuore, mani e voce: batte le mani sul cuore e ne fa uscire parole di supplica e di dolore, dove una brevissima parola cambia tutto: “tu”, «Signore, tu abbi pietà». E poi un lamento: “Sono un ladro, è vero, ma così non sto bene, non sono contento di me. Vorrei essere diverso, vorrei cambiare, ma non ci riesco, non ce la faccio ancora, ma tu perdona e aiuta”. Il pubblicano desidera e spera, e vorrebbe riuscire a cambiare, magari domani, magari solo un pochino, “però sì, con il tuo aiuto, Signore, qualcosa farò, anche solo piccolo passo”. E tornò a casa sua giustificato, cioè trasformato e pronto a un primo piccolo grande passo buono.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Nel brano di questa settimana Luca si sofferma ancora sul tema della preghiera, che non può essere solo perseverante o insistente, ma soprattutto capace di creare una relazione con Dio, una relazione in cui il cristiano rivestito di umiltà, è pronto all’ascolto e si riconosce peccatore in una condizione di perenne debolezza: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa” (1 Gv. 1, 8-9). Per il suo insegnamento Gesù si serve di una parabola che però è solo per alcuni: non si fa di tutti gli osservanti un fascio, si parla solo dei presuntuosi, di coloro che si credono al di sopra degli altri e giudicano gli altri.
Due uomini uniti nella fede nello stesso Dio si recano a pregare nello spazio sacro deputato al culto, il tempio. Secondo la società degli uomini uno è riconosciuto come fariseo, ovvero uno studioso della legge, un osservante scrupoloso. L’altro è un pubblicano, cioè un esattore delle tasse al soldo dei romani, un mestiere che lo rende impuro e odiato dai suoi connazionali. Davanti a Dio, però, essi sono solo due uomini, e presso Dio non c’è preferenza di persone (Sir 35,12). La differenza fra i due non sta quindi nello status sociale bensì nei due modi diversi di vivere la fede. Da abile narratore, Luca svela a poco a poco come è abitato il tempio del cuore dei due uomini, uno spazio totalmente interiore e spirituale: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3, 16), rivelativo dell’immagine che essi hanno di Dio e di se stessi. Il linguaggio del corpo rafforza ulteriormente le parole che essi esprimono nella preghiera.
Il fariseo sta in piedi, ben visibile nello spazio del tempio, ritto, sicuro, disinvolto. La sua postura ci ricorda le parole di Gesù: “Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini” (Mt 6,5a). Egli segue correttamente i canoni della liturgia ebraica, iniziando con la lode a Dio per tutte le opere che lui stesso aveva compiute, ma di fatto pronuncia un monologo vanaglorioso in cui non c’è spazio per l’ascolto dell’Altro e l’accoglienza della Parola. Il fariseo osserva scrupolosamente le pratiche religiose e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescrive la legge, ma due. Paga pure le decime su tutto, mentre questa tassa era richiesta solo per il frumento, l’olio e il bestiame. Si autocompiace di quello che fa, ma soprattutto di quello che non è: non ladro, non ingiusto, non adultero, non pubblicano! Insomma, la sua condotta è esemplare. Eppure, capiamo che in lui c’è qualcosa che non va. E non si tratta solo della sua relazione con Dio, ma anche della sua relazione con gli altri uomini da cui prende le distanze con l’orgoglio di sentirsi migliore di loro, fino al disprezzo con cui apostrofa il pubblicano (“questo pubblicano”), lo stesso disprezzo espresso dal fratello maggiore nella famosa parabola del Padre misericordioso (“Questo tuo figlio”) (Lc 15, 29-30).
Ed eccolo, il pubblicano, nello spazio più lontano del tempio, vicino la soglia, a testa bassa, con lo sguardo a terra mentre si batte il petto, consapevole della sua indegnità interiore. Se ne sta a distanza, eppure è vicino al Signore, perché “il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Sal 33,19). La sua contrizione è ben differente dalla superbia arrogante del fariseo. Egli si rivolge a Dio non per vantarsi, ma per implorare misericordia “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (v.13). È la preghiera del cuore, che parte dall’amore, che vede in Dio un padre; è la preghiera di chi si riconosce bisognoso di perdono. Il pubblicano non guarda verso il fariseo, non fa nessun confronto né con lui né con altri. Egli non promette di cambiare vita o di riparare al male che ha commesso, si affida unicamente a Dio. Gesù, che ha descritto con velata simpatia la preghiera del pubblicano, conclude con un’affermazione sconcertante per il suo uditorio: Dio gradisce la preghiera del secondo, mentre respinge quella del primo. Il pubblicano torna a casa giustificato, cioè reso giusto, messo in una giusta relazione con Dio. Poiché ha avuto Dio come referente della sua preghiera, si trova riscattato da parte di Dio. Non giustiziato per i suoi peccati, ma giustificato.
Non cadiamo nell’errore che il fariseo è condannato e il pubblicano è assolto. Qui si ripete ciò che già la parabola del Padre misericordioso aveva prospettato: anche il giusto che insiste sul proprio merito appartiene a Dio (Lc 15,29;32) ma non lo riconosce se non nella propria idea di giustizia. La preghiera del fariseo è esternamente ineccepibile; ma egli vede la salvezza come un premio per il dovere compiuto. Ha fatto della sua osservanza della legge il piedistallo per il suo orgoglio che lo separa dagli altri uomini, ma anche da Dio: non ha più bisogno di un salvatore, si è salvato da sé e a Dio rimane solo il compito di premiare la sua giustizia, un premio al quale il fariseo ritiene di avere diritto. Certo agli occhi degli uomini il fariseo continuerà ad essere stimato, mentre il pubblicano continuerà ad essere detestato.
Ma Gesù ribalta il destino dei due personaggi pronunciando il suo giudizio: “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (v.14), dimostrando ancora una volta che le sue vie non sono le nostre vie. “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Allora cosa vuol dire essere umili per noi cristiani? Certamente Gesù non ci invita al masochismo spirituale, ma a riconoscere i nostri limiti e ad affidarci con fiducia al Signore. Bisogna vigilare anche sull’umiltà, perché non diventi occasione per mettersi in vista e ostentare lo stesso atteggiamento del fariseo. Anche il pubblicano è a rischio! L’unico modo di mettersi di fronte a Dio nella preghiera è quello di sentirsi bisognosi del suo perdono e del suo amore. Solo dall’accettazione sincera della propria povertà può nascere la preghiera autentica che è scambio di amore tra l’uomo e Dio. Solo così l’infinita fragilità e l’infinita gratuità si incontrano per rigenerare l’uomo che ritrova la gioia di essere amato da Dio e di entrare in un reale dialogo di amore e di comunione. Lasciamoci aiutare dall’antica preghiera del cuore: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me, peccatore”.
Annalisa Greco
Comunità Kairòs